sabato 4 marzo 2017

Dottorato di ricerca in Architettura. Teoria e Progetto
XXXII Ciclo, I Semestre
Prof. Antonino Saggio
Roberta Gironi

Categoria: Città


Intorno alla condizione di abitare: la fragile linea dell’esistenza

Sempre più viviamo in società urbane senza città
Manuel Castells

Le nuove condizioni fisiche e sociali dei territori urbani evidenziano un mutato senso di quello che viene comunemente definito come città. La realtà globale è, infatti, percorsa da forze di trasformazione sia in senso materico, che hanno come diretta conseguenza un’incessante espansione degli agglomerati urbani, sia da una trasformazione di tipo concettuale e sociale che riguarda la percezione stessa di città da parte degli abitanti. All’immaginario collettivo di polis, si sta sostituendo un sistema più complesso, composto da tasselli di un mosaico urbano in cui le realtà non sempre dialogano ma sovente si configurano come isole a sé stanti. Tale conformazione si manifesta in contrasti stridenti, con punti di discontinuità in cui risulta evidente il divario economico e sociale che intercorre tra diversi gruppi in differenti contesti urbani. Queste differenze si traducono in veri e propri dispositivi spaziali di separazione, secondo una geografia frammentata il cui terreno può essere mappato in base all’appartenenza ad un contesto sociale.
In sostanza, confini fisici delimitano zone di appartenenza di gruppi diversi all’interno dello stesso ambito urbano.
La condizione delineata rivela in alcuni contesti una dimensione di fragilità spaziale che merita di essere indagata e compresa nei suoi caratteri insediativi.

A tal proposito, sono state selezionate due tesi di dottorato del Dipartimento di Architettura, teorie e progetto e si propone qui una duplice chiave di lettura, secondo un filo conduttore ritenuto comune in entrambe le tesi individuate, seppur declinato in modi distinti: da un lato si propone una lettura secondo il concetto  di limite, in quanto esclusione e inclusione, e dall’altro quello del rapporto tra individuo e territorio.
Il primo termine rimanda a ciò che Edward Soja definì come capitale spaziale, ovvero strumento e condizione spaziale di accesso ad un inserimento nella vita sociale e che genera una conseguente esclusione di ciò che è altro. Questo è il caso delle gated-community che, secondo Bernardo Secchi, sono “il luogo di specifiche forme di governance create ad hoc e accettate in un patto di mutua solidarietà tra gli abitanti”. Tale lettura sarà utilizzata per la prima tesi presa in esame.
Lo stesso concetto di limite indica però anche un continuo tendere tra la dimensione del costruito e la dimensione dello spazio vuoto, tra ciò che per esistere deve delimitare la sua diversità e creare le sue regole, configurandosi come uno spazio definito e circoscritto, e ciò che è invece indefinito. Questa sarà la lettura della successiva tesi, ovvero sul deserto.
La seconda chiave interpretativa proposta, sul rapporto individuo-territorio, rimanda invece alla continua modificazione del suolo quale espressione dell’esistenza della condizione umana e quindi dell’abitare.   

La tesi in Composizione Architettonica e Urbana dal titolo “Meg(a)polis / Lagos” di Leila Bochicchio partendo da un’analisi delle mutate condizioni delle città, evidenzia e delinea nello specifico la struttura della megapoli di Lagos.
Momento di riconoscimento di cambio è la svolta urbana registrata nel 2007 che ha evidenziato una popolazione globale per la maggioranza urbana. Il gigantismo che caratterizza questo fenomeno dilagante di inurbamento, ha fornito una nuova catalogazione dimensionale di città in relazione al carico assoluto di abitanti. Vengono così definite 5 categorie di città : mega-città, grandi città, città medie, città e aree urbane minori, passando da una scala d’ordine di meno di 500.000 abitanti a oltre 10 milioni.
Il termine metropoli si diffonde a partire dalla prima metà del XXsec per definire agglomerati urbani con una popolazione maggiore di un milione di abitanti; questi centri urbani venivano identificati collettivamente quali centri con un’immagine ben definita e individuabile, frutto di un processo di progettazione dall’alto che ne definiva le perimetrazioni e le distinzioni tra ciò che era dentro e ciò che ne era escluso.
Nel 1961 il geografo Jean Gottmann usa per primo il termine di megalopoli per descrivere la l’area urbanizzata sulla costa orientale da Boston a Washington; tale fenomeno appariva non come sommatoria di centri urbani connessi ma come un unicum, riconoscendo un certo grado di invasività legata al pattern generico e privo di gerarchie urbane, delle reti di trasporto ed edifici senza qualità.
La tesi utilizza nel titolo il termine “Meg(a)polis” per indicare, da un lato l’aspetto dimensionale e quindi un evidente stato di urbanizzazione, dall’altro la particella alfa indica l’assenza di polis, cioè di quanto in genere è inteso come città tradizionale e quindi ne esclude i valori propri di città stessa.
All’interno delle megalopoli episodi di povertà urbana sono passati da fenomeni delimitati e sporadici a manifestazioni evidenti (nei paesi in via di sviluppo si stima che il 78% della popolazione risieda in questi contesti). Il fenomeno definito dei mega-slum emerge a partire dagli anni ’60 quando in Africa, il boom economico legato sullo sfruttamento delle risorse, anziché basarsi sulla produzione,  ha generato  un aumento dei costi dei beni di consumo, dei terreni e degli alloggi urbani.
Nella diade centro-periferia e sviluppo orizzontale-verticale, si nasconde lo stato sociale dell’abitare (i quartieri abitati dall’elite sono generalmente caratterizzati da tipologie unifamiliari, bassa densità e presenza di spazi verdi, mentre gli slum invece hanno sviluppo orizzontale. L’elevazione nei paesi in via di sviluppo, infatti, è una questione da ricchi).
Nel senso di appartenenza ad una comunità risiede uno dei valori fondativi del vivere urbano. Gli spazi della città contemporanea evidenziano un tipo di identità individuale più che un’identificazione del singolo quale membro di una comunità. Il senso di comunità come luogo di incontro tra diversi, si appiattisce a circolo di uguali, o di simili. I luoghi della città contemporanea si frammentano in aree di partecipazione e identità omologhe, evidenziando delle comunità come sistemi chiusi, delimitati da confini unanimemente riconosciuti.
L’analisi su Lagos parte dall’individuazione di tre elementi materici, che sono interpretati in senso oggettivo e simbolico: sabbia e acqua come categorie geografiche intrinseche e asfalto come layer di antropizzazione giustapposto. Acqua e asfalto sono il filone guida per la lettura delle infrastrutture, l’uno naturale e l’altro artificiale.
La sabbia, intesa come passaggio e territorio, corrisponde alla porzione di pieno in antitesi a quella di vuoto costituita dall’acqua. Tutta la città poggia sulla sabbia, che ne costituisce elemento fondante e strutturante (alcune leggi urbanistiche proibivano l’edificazione in elevazione degli edifici a causa della fragilità del supporto del terreno).
La città si è sviluppata secondo un processo di urbanesimo amorfo, indipendentemente dagli sforzi di pianificazione. La maggior parte degli interventi di espansione pubblici intrapresi  miravano ad accogliere solo un certo tipo di abitanti. Nasce in epoca coloniale una dualità che permane ancora oggi a Lagos: già dall’inizio del ‘900, infatti, furono identificate delle aree ad uso esclusivo degli europei (Ikoyi) e aree commerciali in cui potessero fare affari con gli africani (Lagos Island) e così anche la costituzione dei quartieri di Ebute Metta e Yaba che furono pensati secondo il modello delle new town inglesi.
 Il meccanismo di esclusione di alcuni strati di popolazione ha innescato meccanismi di sopravvivenza che ha visto urbanizzare aree di scarto. La necessità di insediarsi è avvenuta mediante un continuo rapporto di modifica e interrelazione tra individui e territorio. L’acqua, elemento preponderante nella città, ha costituito quello che nella successiva tesi sarà il deserto: un elemento sul quale incidere la propria esistenza. Infatti, la precarietà dell’abitare si rivela in tutta la sua forza attraverso un labile equilibrio con i ritmi lacustri, soggetti a inondazioni: palafitte instabili conquistano lo spazio acquatico della laguna, unico spazio esente dalle mire economiche e speculative. La fragilità della condizione insediativa rivela tutta la sua forza nel desiderio di esistere.

La successiva tesi, intitolata “Intorno al Sahara. Topografie resistenti tra architettura, deserto e città” di Filippo De Dominicis, prende in esame il rapporto che si instaura tra il deserto e lo spazio costruito proprio del fenomeno urbano. Viene indagata l’esistenza di un fenomeno urbano anche in contesti in cui le condizioni geografiche sono avverse, quali quelle del deserto. Delineare il fenomeno urbano significa rintracciare la scrittura del luogo, sospesa in un rapporto ambiguo tra insediamento e territorio, esito di sovrapposizioni continue.
Il deserto nella tesi è letto come uno spazio indeterminato e astratto in quanto atemporale.
Il lavoro è strutturato in quattro parti: la prima introduce la condizione fisica e mentale indotta dal deserto come principio fondativo del fenomeno; la seconda e terza approfondiscono due casi studio (Djennè e l’oasi di Figuig) parti vitali di un fenomeno urbano e l’ultima parte, sul ruolo del progetto come trasformazione rivalutativa dell’esistente. Per descrivere la storia e lo sviluppo delle città si deve partire dal rapporto tra insediamento e territorio su cui insiste.
Alla base dell’atto insediativo vi è una necessità estrema di modificazione e la totale astrazione spazio-temporale, in cui il deserto costituisce il supporto fondativo e vuoto eccezionale. Ogni tentativo di avvicinarsi ad esso comporta un passaggio oltre un limite ben definito; il limite morfologico dell’Atlante delimita, infatti, una fascia oltre la quale le condizioni geografiche aride non garantiscono la possibilità di auto sostentamento. Questo limite caratterizza e divide il Dar-Al-Islam in due mondi: da una parte la badiya, territorio non civilizzato e attraversato da nomadi allevatori, dall’altro la hira, la civiltà del sedentario borghese.
L’uomo realizza il proprio universo, inteso come centro, chiuso e limitato, in opposizione alla non intelligibilità del deserto, inteso come limite e orizzonte. Tutto ciò identifica una condizione spirituale a cui fa riscontro una fisica: il deserto come ostacolo alla civilizzazione in quanto non coltivabile. Il deserto è quindi lo spazio del percorso e dell’attraversamento, misurato attraverso l’infrastruttura carovaniera. Solo attraverso la modificazione del suolo e del rapporto con il territorio, l’abitante può garantirsi la sopravvivenza. Il recinto ne perimetra aree che sfuggono alle regole del deserto; esso è spazio mentale, che vive nella contemplazione del contrasto, e spazio fisico, che si confronta con il territorio, modificandolo e incidendolo.
Dietro ogni fenomeno urbano sussiste un atto di tipo fondativo: un gruppo umano che si insedia decide di riferirsi a un capo e decide dove insediarsi, privilegiando zone difendibili. Dopo aver costruito l’edificio di culto, il gruppo perimetra un’area in cui si svilupperà e crescerà, per successive aggregazioni, l’insieme urbano. Gli abitanti dispongono di una serie di regole per difendersi dal deserto: la moschea in sommità, il recinto come limite fisico e mentale ed un tessuto urbano che si struttura secondo un sistema di pratiche. Si instaurano quindi delle relazioni-tipo indotte dalla condizione di isolamento che il deserto comporta.

In conclusione, una città esiste quando include nel suo interno e fa proprie regole che la distinguano dal deserto, regole che stabiliscano una relazione esclusiva con esso, nella misura in cui il deserto resta l’elemento fondativo della vita urbana.